Intro
L’ultima volta che sono andata al poligono, credo fosse marzo perché avevo ordinato la torta per il mio compleanno, avevo la febbre altissima. La fronte grondava sudore e stanchezza, gli occhi si erano appannati, come ricoperti di una pesante saliva. Riuscivo a stento a reggere la carabina ad aria compressa, i brividi di freddo mi portavano a chiudere le spalle, a rannicchiarmi in me stessa, in una posa che sulla linea di tiro non avevo mai assunto prima. Chi mi vedeva, osservava la paura. Forse avevano ragione loro, avevo paura. Di stare ancora male, di non riuscire più a fissare la mira, bloccare ogni muscolo del corpo, tendere il respiro in equilibrio perfetto e premere quel cazzo di grilletto. Ho finto di farcela, inalando tre respiri lunghissimi, con gli occhi che si allontanavano dalle orbite per toccare il bersaglio. Un solo obiettivo, inner ten e stendermi a letto. I muscoli della gamba sinistra iniziarono a informicolirsi, stavo raggiungendo l’apice della resistenza. Un solo obiettivo. L’ultimo colpo, l’ultima volta in cui l’indice deciderà quando premere la leva. Bloccai il respiro, chiusi gli occhi, il calcio della carabina affondò nella mia spalla fino a toccare l’acromion. Inner ten.
L’ultima volta che sono andata al poligono mi sono sentita come Alice Giammatteo, che poi diviene Alice Barone, che spara senza capire. E ha paura. Moltissima paura. E forse vuole dormire, come me.
Quant’è difficile crescere? Quanto può essere complicato ritrovarsi adulti all’improvviso? Una volta compresa la possibilità di disegnare la propria indipendenza, intellettuale e spirituale, crescere diviene uno stato d’animo estremamente confuso, oscuro. Essere consapevoli significa essere liberi, ma esseri liberi non implica necessariamente non avere paura; e non esiste niente di più terrificante di crescere.
Sembra la storia di molti, non di tutti, ma sicuramente sembra la storia di Alice Giammatteo. Che diventerà Alice Barone, e che scoprirà una nuova realtà Senza più giocattoli, ma piena di sangue, pistole e Kalashnikov.
Nulla al mondo assume i caratteri caleidoscopici più dell’adolescenza, e degli anni Ottanta: è il caso – o meglio l’eccezione, come canta Madame nel brano scritto appositamente per la serie tv – di Bang Bang Baby, la serie ideata da Andrea Di Stefano, ispirata alla vera vita di Marisa Merico, la principessa della ‘ndrangheta nella Milano da bere, distribuita da Prime Video.
Grazie alla regia di Michele Alhaique, Giuseppe Bonito e Margherita Ferri, Bang Bang Baby accarezza tutta la vulnerabilità, la facile esaltazione, la perenne insoddisfazione di un’adolescente, per cui tutto è estremo, tutto è una lotta. Ma per Alice, la protagonista della serie interpretata da una strabiliante (esordiente) Arianna Becheroni, quel tutto assume un valore assoluto che tocca concretamente la realtà dei suoi giorni da liceale della provincia lombarda.
Di quell’implosione emotiva che collassa amplificando un mondo che fino a quel momento era stato in silenzio e in attesa, regia, sceneggiatura e montaggio riescono a raccontare ogni dettaglio, compiendo un lavoro magistrale, sostenuti da una fotografia maliarda, ferruginosa e legittimamente eccessiva, come lo è stata la Milano degli anni ‘80, futuristica e misteriosa agli occhi di una giovane studentessa di Bussolengo, una provinciale alle prese con lo spleen e le prime frustrazioni.
L’Italia di Bang Bang Baby – coloratissima, fosforescente, gonfia, insoddisfatta eppure falsamente felice – ci racconta anche il 1986, l’anno in cui nasce la rete internet, l’anno del disastro di Chernobyl, l’anno di IT e Top Gun, degli Yuppies, di Ramazzotti e Madonna, del Walkman Sony, dei telefoni a gettoni, delle serie tv americane da guardare tutti insieme.
È in quell’anno che l’adolescente Alice, perno attorno al quale ruota l’intera storia di Bang Bang Baby, scopre che l’amato padre Santo che credeva morto (uno smagliante Adriano Giannini mai così guascone e serpentino) in realtà gode di ottima salute e si trova in carcere perché il suo mestiere è sempre stato quello del criminale, afferente a un grande clan della ‘ndrangheta, una famiglia che nonostante i boss maschi, appare capeggiata dalla figura oscura e marziale di Donna Lina, madre di Santo e soprattutto nonna di Alice. Una nonna di cui la giovane non sa nulla. E con il disvelare i volti e le storie della famiglia Barone, è come se si portasse alla luce una fetta di Milano che in realtà è Calabria.
Bang Bang Baby potrebbe (a prima vista) unirsi alla lunga lista delle saghe che da Gomorra a Suburra passando per Narcos hanno narrato il mondo della criminalità ma se ne distacca grazie ad alcuni particolarissimi elementi. Il principale è la scelta di dare centralità al rapporto tesissimo fra due donne, nonna e nipote: Nonna Lina (una titanica Dora Romano il cui fascino attanaglia e terrorizza) e Alice, rispettivamente, sono gli assi attorno ai quali ruotano i 10 episodi della prima stagione. Anagraficamente distanti, vicinissime per indole, legate dal sangue e attaccate a quel sangue che si deve spargere alle volte per scrivere il finale di una storia.
Accanto a queste due figure femminili, sfrontate nei loro mondi, si aggiunge Gabriella, madre di Alice, alla ricerca di un’idea di prosperità che arriva dagli USA, dallo smarrimento di fronte a una società capitalista che non conosce il termine abbastanza. Tre donne che, con lo sviluppo degli eventi, non paiono subire la mascolinità che ci si aspetterebbe dagli anni Ottanta e dalla malavita organizzata. Loro decidono, loro agiscono, loro hanno un’identità iper definita, che esattamente come i profili delle Charlie’s Angels – bonariamente evocate sul finire dell’ottavo episodio, non hanno bisogno dell’uomo – non ha bisogno dell’uomo ma che supera l’idea di un monolitico potere di genere e posizione se stessa nell’organizzazione sociale della mascolinità.
Per Alice crescere si rivela per quello che è, una coltre di nebbia che si dirada sulla responsabilità, coprendo di incertezza una visuale che non riesce più ad andare al di sopra dell’illusione. Alice perde e ritrova un padre, scopre una nuova famiglia, con una visione del mondo ben precisa, con un codice da rispettare, con una lingua da comprendere e interpretare. Se a una prima analisi, la facilità con cui Alice si spoglia dei panni (un po’ tristi, un po’ sfigati) della Giammatteo per vestire quelli (modaioli, parruccati) di una Barone, può dar luogo a qualche perplessità, è all’amore disperato per quel padre resuscitato e adesso presente nella sua vita che dobbiamo ricollegare ogni sua scelta, ogni sua sconsiderata, folle azione.
Se per Alice crescere a Bussolengo negli anni Ottanta doveva essere una stanca ma normale dilatazione temporale, fatta di dissidi con la madre, disturbi alimentari, walkman sempre acceso e pomeriggi passati con l’amico del cuore, l’arrivo di Santo e della famiglia Barone incendia ogni pagina di quel diario segreto che le adolescenti compila(va)no con dovizia. Crescere diviene allora una contrapposizione a se stessi, alla propria natura, al fine di riappropriarsi della propria identità e prenderne il controllo. È un desiderio di conquista: l’adolescente vuole sbagliare, ma vuole deciderlo liberamente. Parafrasando Camus, l’adolescente vuole dire no – forse realmente per la prima volta nella sua vita – senza però essere costretto a rinunciare; vuole rifiutare, e al tempo stesso muoversi, sperimentare, fino a raggiungere la propria indipendenza. Perché se Alice rifiuta, non rinuncia: è anche una giovane donna che dice sì. Alla malavita, alla violenza, all’inganno, al non amore dell’amore.
Che non si sia parlato abbastanza di Bang Bang Baby mi sembra palese. Ma cosa più importante è che non si è trovato il modo giusto per parlarne. Non possiamo derubricare la serie ideata da Andrea De Stefano a mera rivoluzione televisiva perché Bang Bang Baby è molto di più: nel suo tentativo (spoiler: riuscitissimo) di emanciparsi dai soliti schemi narrativi italici, compie un ulteriore passo in avanti, proponendo una formula nuova che attinge sì dalla popolarissima tematizzazione criminale ma la rende ultra-pop, e quindi ultra leggibile e ultra comprensibile anche a chi è digiuno di codici e avventure malavitose. Fondamentale, da questo punto di vista, è il non abbandonare mai la prospettiva di Alice, che è un’adolescente e che – esattamente come noi che la osserviamo ora inorriditi ora orgogliosi – si domanda costantemente se ciò che sta avvenendo – nella sua vita e sullo schermo – sia giusto oppure no.
E proprio la scelta degli schermi che, come matriosche, si aprono nelle case, nei bar, nelle vite dei protagonisti di Bang Bang Baby allude a una dimensione metafilmica che gli anni ‘80 e le sue politiche corrotte hanno imposto nel nostro immaginario: dalle pubblicità perennemente presenti agli episodi di Dinasty, dai programmi tv (Copioni, albori e fulgori del trash!) al cinema anni ‘50 con la citazione in apertura di Come le foglie al vento con due splendidi Rock Hudson e Dorothy Malone alle prese con un dialogo che sembra anticipare l’ossessione di Alice nei confronti del padre (“Non sprecare la tua vita ad aspettarmi” – “Ti aspetterò. Ti ho nel sangue”).
L’estetica quasi fumettistica, – e il rimando ai manga giapponesi nell’ultimo episodio sembra confermare questo approccio – non sembra mai cozzare con la violenza trucida degli avvenimenti targati famiglia Barone. E con le azioni che la stessa Alice, ora bambina inconsapevole ora giovane donna cinica e sfrontata, compie con tutto il trasporto dei suoi anni leggeri, divenuti nell’arco narrativo dei primi due episodi, un macigno che altera il quotidiano, trasformandolo in un loop allucinato, senza orari, senza freni, senza la percezione del proprio corpo, e del proprio tempo. Alice, come la sua omonima nel mito carroliano, sprofonda in uno spazio che evoca memorie del reale, traumi impliciti, suggestioni familiari, sottostando a una visione potenzialmente eversiva nel momento in cui Alice si sveglia e decide di restarvi, nel momento in cui Alice decide che vuole rientrare in contatto con un passato di cui non sa nulla.
Bang Bang Baby non è soltanto la miglior serie italiana dell’anno ma è soprattutto un’esplosione bellissima: esplode la regia a sei mani di Alhaique, Bonito e Ferri, esplode il montaggio, la fotografia al neon, esplode la bravura selvaggia di Arianna Becheroni, esplode l’intelligenza nella scelta di attori massicci come Gerardi e Gallerano, esplodono gli anni Ottanta finalmente sciolti dalla malinconica retromania di prodotti tv che ne restituivano solo il corrotto grigiore e la polvere.
I colori e i suoni di Bang Bang Baby sparano letteralmente sul pubblico, pescando da una memoria collettiva che ne riconosce immediatamente il peso specifico quindi, all’intero comparto sonoro, lodi, lodi e ancora lodi. Perché se le musiche originali di Santi Pulvirenti offrono una lettura rinnovata della formula chimica tipicamente eighties legata ai synth e all’elettronica, il lavoro di music supervision orchestrato da Roberto Corsi regala un immaginario pop che fa convivere super hit a chicche del cantautorato italiano, dando vita a un immaginario sonoro dissacrante e liberatorio (quando vi ricapita di avere La Signora di Lucio Dalla a far da bugiardino per i mali della società?). Se sulla carta avere Felicità e The Killing Moon nella stessa OST può sembrare follia, in Bang Bang Baby non solo è possibile ma appare la scelta più naturale, logica e rispettosa di un decennio che ci ha fatto innamorare del duo zuccherino di Cellino e al contempo ci ha permesso di viaggiare, restando immobile nella provincia, verso le terre inglesi, esportatrici di un nuovo sound, futuristico, eppure contemporaneo, che parlava agli adolescenti, degli adolescenti, con la fresca maturità di chi ha appena passato gli anni grotteschi dello sviluppo.
E sul grottesco molto spesso a giocare è la scrittura stessa della serie: si estremizzano stereotipi, palesando una scelta stilistica indirizzata a creare una fiaba tragicocomica, figlia (o meglio nipote) di una commedia all’italiana che sapientemente attingeva dal dramma popolare, dalla cronaca nera. Si veda la scena del pappagallo liberato da Donna Lina che col suo “Bottana” resta uno dei momenti più spassosi, un dettaglio che strappa un sorriso di fronte alla disumanità dell’atroce fatto commesso.
Bang Bang Baby brilla anche nel saper narrare la nostalgia, con rimandi, ricordi, oggetti, modi di dire, tipizzazioni di un decennio complesso e viscerale, colmo di humour (nero, nerissimo) e intelligenza, sebbene talvolta truccati pacchianamente. E se le scelte legate ai costumi, che diventano divise in cui nascondersi o riconoscersi, slegano (finalmente) gli anni ottanta dall’eccesso glam che alcune serie tv hanno targettizzato in modo eccessivo, mostrando un livello di coolness molto più popolare e periferico, sono gli attori che quei panni li fanno muovere ad accendere il fuoco della qualità.
Delle scelte attoriali si parla sempre poco, fermandosi tutt’al più a lodare la bravura dei protagonisti: in questo caso se la Becheroni è stata la scommessa più folle e bella che si potesse fare, è fondamentale sottolineare la grandezza di Antonio Gerardi e Giorgia Arena, un duo struggente, intenso e complesso, che ha dato corpo e anima a Nereo e Assunta Ferraù, emarginati freak, cugini e fratelli, sodali e puri. Così come la Barbarella incendiaria della mastodontica Silvia Gallerano, una montagna nel mondo del teatro nonché prima attrice italiana a vincere il The Stage Award for Acting Excellence come Best Solo Performer, il più alto riconoscimento per attori e attrici al Edinburgh Festival Fringe, o ancora la sapiente armonia tra esplosività e rigore della Giuseppina di Denise Capezza. Un cast che opera chirurgicamente, che si presta in modo epidermico a ogni ripresa, ovviamente diretto con la maestria dei grandi.
Gli stessi registi che rendono possibile l’intesa tra lo spettatore e Alice, qualcosa di perverso eppure sacro, che nasce istantaneo, come una codifica chimica, impercettibile e concreta nello stesso momento in cui vorremmo urlarle “fermati, basta!” e regalarle, poco dopo, una carezza amica. L’impasto di fiducia e vulnerabilità del suo personaggio appare reale tanto quanto i suoi occhioni eccitati e preoccupati sono figli del suo desiderio di sentirsi amata – dal padre Santo, da Rocco, dall’ambiente malavitoso. Ma è proprio il carattere di un’adolescente, oscillante, inopportuno, sorprendente a dare lo stesso ritmo a una sceneggiatura piena di cambi di tono e di ritmo, di registri e generi: Alice vive e con lei vive il movimento emotivo dell’intera architettura della serie. Anche perché l’allucinazione collettiva degli anni ‘80 di Bang Bang Baby è stata soprattutto uno stato d’animo, uno scoppio al cuore, come quello vissuto da Alice. All’improvviso.
Outro
Alice mira, spara, Alice non ha paura e fa paura. Alice è esplosa e, forse, sorride.
Beatrice Pagni è nata nella campagna toscana lo stesso giorno di Gregory Corso, svariati decenni più tardi. Ha scritto e continua a scrivere di musica e cultura per diverse testate (Sentireascoltare, Il Mucchio Selvaggio, Il Foglio Letterario), oltre ad aver esplorato il mondo della web tv con l’esperienza targata Decamerette. In redazione a minimaetmoralia.
Fra giocattoli e pistole: elogio di Bang Bang Baby | minima&moralia